Ancona, Ravenna, Venezia, Trieste, Rijeka, Zara, Split e Dubrovnik sono la corolla di città e porti che cinge la chiusura del mare Adriatico a nord e definisce la rete di relazioni con l’Europa continentale e l’area balcanica. Ogni porto ha sviluppato vocazioni legate alle rotte, ai commerci, alle produzioni, e definito influenze, alleanze, centralità; si è condivisa la cura delle risorse – quelle della natura selvaggia, quelle dell’ingegno e della conoscenza che si tramanda; si è riconosciuta l’appartenenza a un patrimonio comune. Parole come facenda – il fare del talento del lavoro e dell’impegno – sono un suono identitario nel quale riconoscersi.
Saperi, visioni, culture, tradizioni sono il common ground legato alle economie e alle professioni, alle relazioni, al rapporto con i luoghi. I porti e le città hanno tenuto insieme la dimensione storica e monumentale delle banchine con lo sviluppo del porto contemporaneo multipurpose. Ad Ancona come in altri contesti, pesca, cantieristica, darsene commerciali e servizi di navigazione hanno reso il porto un’infrastruttura essenziale, un ecosistema dei lavori e dei valori, un terminale delle qualità territoriali, un’agorà multiculturale delle specializzazioni e dell’innovazione sostenibile. Il millenario rapporto col mare, con l’area balcanica e l’Europa orientale, ha dato vita a culture progettuali e del lavoro che negli arsenali hanno imparato a realizzare ogni tipo di imbarcazione – navi da crociera, mercantili, traghetti, barche a vela, pescherecci, yacht. Come quello di Venezia, simbolo dell’eccellenza nella costruzione delle navi dal 1150, come quelli di Ancona con la varietà dei cantieri e delle realizzazioni. Un’abilità che ha origine nella preistoria come insegna la pionieristica Rjeka, a partire dalla filiera del legno fatta di conoscenza dei boschi, sacralità della natura, capacità commerciale, manifatturiera e di trasformazione legata alla pesca, ai transiti, all’accoglienza di viandanti, viaggiatori e turisti. Tutto si è sviluppato insieme, come mostra la storia di Spalato dove la vocazione commerciale e mercantile, la vivace scena culturale, le abilità legate alla pesca e alle tecniche di trasformazione e conservazione del pesce – le acciughe di Komiza – rese possibili da barche speciali come gajeta falkusa sono state opportunità condivise.
Nelle comunità le persone hanno custodito la memoria – immaginari, letteratura popolare, proverbi sul tempo, le stagioni e il senso della vita – e accolto la prospettiva, preservando peculiarità originali come la lingua franca parlata sulle banchine di Dubrovnik e dei porti croati, espressione di una cultura orale semplice e diretta oltre l’identità francese, italiana, slava, greca, araba, spagnola. Nella babele linguistica, dove gli idiomi sono valori etno-antropologici, la lingua franca è una basic comunication funzionale e cosmopolita che poggia sulla mobilità dei confini fisici e culturali, e celebra il dialogo tra radici comuni.
Radici che permangono nella devozione, nella spiritualità, nel patrimonio, nell’itineranza e nel sentimento magico della natura – il mare, la bora, le montagne del Velebit – nei miti che accomunano luoghi vicini e lontani, storie di pesca miracolosa, credenze, feste patronali dedicate a San Nicola il protettore dei pescatori, portafortuna, pellegrinaggi e celebrazioni pagane. Tutto consolida e rinnova il senso di appartenenza a un paesaggio comune, fatto anche di ricette e icone celebrate, filiere della cultura materiale, come il baccalà a Venezia – legato alle avventure nei mari del Nord del mercante Pietro Querini alla metà del 1400 – e il caffè a Trieste la cui origine rimanda allo status di Porto Franco del 1750 e poi diviene un cluster industriale internazionale, con associazioni e riconoscimenti, già dal 1891.
Operosità ed elaborazione simbolica, accoglienza e valorizzazione del patrimonio definiscono il stile di vita e le relazioni tra porto e città, la fruibilità culturale di un patrimonio che, come a Ravenna, attraversa i millenni. Sui paesaggi adriatici in movimento spazzati dal vento di bora che rilascia cieli cristallini e visionari, poggiano storie, narrazioni e rotte leggendarie, come quelle balcaniche del sale con Zara e Dubrovnik protagoniste già nel Medio Evo, con una legacy che oltre al valore della risorsa in sé, ritorna come valorizzazione del paesaggio, dell’ambiente, della biodiversità.