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BUONO, ANZI, BUONISSIMO!

Moretta o turchetto?

È la tipica contesa italica – Coppi-Bartali, Milan-Inter, vino bianco-vino rosso. Da secoli chi lavora in mare nelle Marche, si scalda con caffè corretti dalle miscele tutte simili ma tutte diverse, profumati e aromatici con rhum, anice, zucchero in quantità generosa e scorzetta di limone. Non ci si divide solo sugli ingredienti e sulle quantità ma sui marchi dei singoli componenti. Rhum?… si ma quale rhum; anice? si ma quale anice… E così si apre il dibattito…. Naturalmente queste bevande squisite si bevono roventi, considerato che la bora e il freddo non fanno sconti. È una tradizione che ha molti nomi – moretta a Fano, turchetto a Senigallia e Ancona, caffè del marinaio a San Benedetto del Tronto. Soprattutto è un gusto condiviso, non solo a bordo ma nelle trattorie e nelle osterie, è una bevanda sfiziosa che si beve in tutti i porti della costa marchigiana. La ricetta, come sempre, è un arcano con infinite personalizzazioni, ma il mitico turchetto, si dice sia quello di “Miscia”, un tempio della ristorazione anconetana.

Ecco la ricetta di Miscia

Fare il caffè nella moka, versarlo in una pentola con la stessa quantità di buon rhum e aggiungere 1 cucchiaio abbondante di zucchero. Aggiungere 3-4 striscioline di scorza di limone sottile sottile.
Far scaldare fino al bollore e poi piano per 2 minuti. Spegnere il fuoco, prendere un cucchiaio del liquido e accenderlo con un fiammifero; con attenzione accostare il cucchiaio alla pentola in modo che tutto si infiammi. Con un mestolino mescolare il liquido e far evaporare l’alcool. Quando la fiamma sarà spenta, servire nei bicchieri con una scorzetta di limone.

 

Il mosciolo

Le Marche sono terra di neologismi fortunati e prossimità tra i mondi. Il più celebre, coniato dalla straordinaria intelligenza di Giorgio Fuà, è la figura del metalmezzadro, un ibrido su cui poggia tanta storia distrettuale che ha portato la regione ad essere una delle aree manifatturiere più sviluppate d’Europa. Al metalmezzadro riusciva quella sintesi tra lavoro agricolo e artigianìa che garantiva presidio delle competenze e dei saperi di contesto, prossimità materiale e spirituale con la comunità originaria, creazione del valore. Diversi ma analoghi, i pescatori-agricoltori di Ancona sono quelli che nel secondo novecento, a bordo di barche a remi chiamate batane, integravano con la pesca dei moscioli il reddito dell’agricoltura fatta di piccoli appezzamenti nelle frazioni di Pietralacroce, Poggio, Varano, Massignano, fino al comune di Sirolo. A quel tempo la pesca era molto limitata e le colonie di molluschi erano concentrate sullo scoglio del Trave e su pochi altri scogli sommersi in un piccolo tratto di costa. Molte di quelle attività, che erano anche socialità e memoria di luogo, hanno dato vita alla straordinaria esperienza delle grotte, con le persone che per decenni hanno disceso la falesia, e percorso tracciati ripidissimi scendendo dai campi coltivati fino al mare. La raccolta dei moscioli selvatici, che non sono le cozze, è un mondo di racconti e avventure, mareggiate, immersioni, orizzonti  abbaglianti e ricette squisite. Così all’agricoltura presto si è aggiunta la pesca e infine la ristorazione. Chi li ama veramente li scotta appena pescati – è il trionfo dei profumi di alghe e di mare; la tradizione li vuole arrosto; i più sfiziosi li prediligono con gli spaghetti in bianco col finocchietto. Dal 2004 il mosciolo selvatico di Portonovo è un Presidio Slow Food, un must, un oggetto del desiderio, una delle leccornìe marchigiane che il mondo desidera. Un prodotto speciale divenuto simbolico, un’icona della cucina e dell’accoglienza marchigiana; un tema letterario e di comunità, come ricorda Antonio Attorre in “Pescatori, cuochi, contadini”, Affinità Elettive Edizioni.

 

Lo stoccafisso all’anconitana

Non è buono, è buonissimo. Sta ad Ancona come la sacher torte sta a Vienna, il panettone a Milano, la pizza a Napoli. La geografia del gusto e dell’identità affonda le sue radici nei paesaggi, nei traffici, nei commerci e poi arriva nelle case, nelle trattorie, nelle competizioni culinarie, nelle guide enogastronomiche, e così diventa icona e simbolo della comunità di appartenenza. Perciò in Ancona è stata fondata l’”Accademia dello Stoccafisso all’Anconitana”, con tanto di statuto, programmi di divulgazione, valorizzazione e tutela dell’ortodossia del rito. Nella versione filologica lo stoccafisso viene appoggiato su una trama di canne e messo a cuocere a lungo, ma tanto a lungo, nell’olio nuovo e nel vino bianco: la regola è non toccarlo, non muoverlo, lasciarlo depositare. Per questo piatto tipico è di rigore l’utilizzo dello stocco “ragno”, meglio se di provenienza dalle isole Lofoten, come racconta la storia delle navi di Ancona che si spingevano fino alle città anseatiche, risalivano i fiordi norvegesi, e per non tornare senza carico ne importavano grandi quantità.

Ecco la ricetta originale per 4 persone.

Ingredienti

1 kg. di stoccafisso ragno già bagnato di prima qualità
5 acciughe lavate e dissalate
2 coste di sedano verde
1 cipolla di media grandezza
3 carote
3 rametti di rosmarino
1/2 etto di capperi dissalati
1/3 di litro di vino Verdicchio dei Castelli di Jesi
1 peperoncino (facoltativo)
1 etto di olive nere
1 kg. di pomodori maturi a grappolo
1 kg. di patate
1/2 litro di olio extra vergine di oliva
sale q.b.

Procedimento

Si pulisce e si taglia a pezzi lo stoccafisso, si toglie la spina centrale, e si compone tutto in una teglia dal bordo alto.
Si macinano insieme sedano, carota, cipolla, capperi, acciughe e rosmarino; con la metà di questo trito si condisce lo stoccafisso messo in teglia, si aggiunge sale q.b. e circa mezzo litro di olio extra vergine di oliva.
Si tagliano le patate a spicchi di media grandezza e si appoggiano sullo strato di stoccafisso fino a coprirlo totalmente.
Si condisce il tutto con l’altra metà del trito, poco peperoncino tagliato sottile (facoltativo), sale, pomodori a pezzi quà e là, olive, si aggiunge il vino e l’acqua fredda fino a coprire tutto.
Si lascia cuocere a fuoco lento per circa 2 ore – 30’ sul fornello e 1h30’ nel forno a 130/140 gradi circa. Si toglie dal fuoco e si lascia intiepidire lentamente, l’ideale è mangiarlo 12 ore dopo la cottura.

 

Testo: Cristiana Colli

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