A PICCO SUL MARE
Il porto dei luoghi, delle persone, dei lavori; il porto dei monumenti e dei rituali, dei volti, delle storie e delle tradizioni; il porto delle identità, delle lingue, delle prospettive e delle memorie di luogo. E’ una lettura d’autore quella che Gian Luca Favetto ( Torino, 1957) – poeta, giornalista, scrittore, drammaturgo italiano – ha costruito per il porto dorico su committenza dell’Autorità di sistema portuale del mare adriatico centrale. Gian Luca Favetto scrive sul quotidiano la Repubblica, ed è una voce storica di Radio Rai. Ha ideato il progetto Interferenze fra la città e gli uomini. Tra i suoi lavori più celebrati: Se dico radici dico storie, le poesie Mappamondi e corsari, l’audiolibro I nomi fanno il mondo, il romanzo La vita non fa rumore, il racconto Un’estrema solitudine.
Testo: Cristiana Colli
IL CARDETO
di Gian Luca Favetto
Risalendo dal porto, a piedi, un chilometro e mezzo di stradine e case fitte fitte, si arriva a un luogo che è un andare e venire di salite e discese, di sentieri, alberi, boschi, prati, costruzioni del tempo; un luogo appartato che è un alternarsi e arroccarsi di verdi – diverse sfumature di verde. Da un lato strapiomba sul mare; per il resto è circondato da case, tetti, muri, vie. Appare come un’oasi, un polmone che respira, su cui confida tutta la città.
Visto dall’alto, seguendo i contorni disegnati sulla mappa, sembra un occhio aperto, verde naturalmente, che punta diritto al cielo. Ma ha anche la libertà di volgersi verso nord/nord-est e, da qui, dove la falesia è fragile e sottoposta a continue erosioni, può allungare lo sguardo e battere l’orizzonte del mare fino alle coste croate.
Come tutte le cose più belle di Ancona, non esistono spazi da cui si può vedere bene. Bisogna cercarlo e trovare il proprio percorso per raggiungerlo. Studiarlo prima su una cartina, forse, è il modo migliore per avvicinare questo pezzo di città in forma di natura.
È uno degli ombelichi di Ancona. Si chiama Cardeto, dal nome della pianta che un tempo vi cresceva in abbondanza, il cardo. È un parco. Anzi, qualcosa più di un parco: uno spazio libero dal tempo, dagli affanni, dai traffici. Con fortificazioni, polveriere, laboratori pirotecnici, ex caserme, ruderi, vecchi monasteri, cimiteri, imponenti bastioni cinquecenteschi con miriadi di cunicoli sotterranei e un faro, il vecchio faro di Ancona. Si estende per 35 ettari fra due sommità, Colle Cappuccini e Monte Cardeto, e tocca tre rioni della città.
Vasto, accogliente, è al tempo stesso un luogo intimo e segreto. Persino misconosciuto. Non è facile individuarlo. Non appare subito con clamore, lo si scopre a poco a poco percorrendolo, passo dopo passo, una volta superato uno dei cinque ingressi.
Al suo interno c’è il cimitero ebraico, il Campo del Ebrei, come è chiamato, con i cippi bianchi che spuntano fra l’erba. È uno dei più ampi d’Europa, fascinoso per l’ambiente in cui si trova, rivolto a oriente, al sorgere del sole, secondo tradizione, e affacciato sul mare. È sorto tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo. Il primo atto ufficiale del 1428 è un documento con cui il Senato della Repubblica di Ancona concede un terreno fuori porta da destinare a cimitero. Le tombe che si incontrano sono datate fra il 1590 e il 1863.
A seconda delle stagioni, se i tagli d’erba e le potature azzardate non hanno fatto disastri, si può godere della fioritura dei narcisi, delle orchidee, dei colchici e delle anemoni.
Gli abitanti della città lo amano molto, ma lo conoscono poco. In fondo, sono ancora tutti in attesa che il Cardeto prenda vita, combattuti tra il fascino che il luogo rimanga intatto, selvatico, romantico, e la suggestione che possa rivivere con alcuni interventi per favorire il turismo e la frequentazione. E però, in questo affettuoso abbandono, come qui sostano al tramonto certi cieli nostalgia, non esiste un altrove che possa accoglierli meglio: anch’essi diventano oasi.
L’ANFITEATRO ROMANO
Un luogo discreto, appartato, molto suggestivo. Se ne sta lassù e sembra che da quelle parti non passi il tempo. Solo qualche automobile, ogni tanto. Un luogo di memorie che combattono con la sciatteria della dimenticanza per non svanire. È stato il centro della comunità, un palcoscenico che coltivava anime e ancora oggi rimane un luogo dello spirito. Un luogo che è anche una delle radici della città. Un passato antico. Un trapassato remoto, se fosse una forma verbale. Mentre, se fosse un’ora della giornata, sarebbe l’ora dei vespri, quando la luce del giorno si smorza.
L’anfiteatro romano custodisce il cuore latino della comunità. Si trova a una cinquantina di metri sul livello del mare nella selletta fra il colle Guasco e il colle dei Cappuccini. Sfrutta mirabilmente la morfologia del terreno. Ancona è una delle poche città, forse l’unica, che ha l’anfiteatro romano nella sua zona più alta, in quella sorta di dito a forma di promontorio che si allunga nel mare a protezione del porto.
È un luogo di memoria, dove la memoria parla al presente. Resistono le tracce dell’imponenza originaria. Ha ospitato grandi spettacoli: qui si esibivano i gladiatori. Con le sue venti gradinate poteva accogliere fino a diecimila persone. Poi, è servito anche come bastione di difesa per la città. Ha accolto un monastero. Con gli anni è stato circondato da molte abitazioni civili. Poi il luogo è stato sfruttato per costruirci un carcere. Ma soprattutto rimane un luogo dell’immaginario, fortemente evocativo.
Gli antichi edificavano le città perché fossero viste. Questo anfiteatro, invece, è un pezzo di città che riesci a vedere solo quando ci entri dentro e lo attraversi. Costruito alla fine del I secolo a.C., nell’epoca di Ottaviano Augusto, primo imperatore, abbandonato nel VI secolo d.C., quando in Italia spadroneggiavano Goti e Longobardi, è stato riscoperto soltanto all’inizio del 1800. Ma per ripotarlo alla luce con gli scavi sono dovuti passare più di cento anni. I primi lavori sono datati anni Trenta del secolo scorso, quando sono stati individuati gli ampiamenti voluti da Traiano. Poi gli scavi sono stati ripresi nel 1972, dopo il terremoto. Ma non sono mai stati portati a termine. L’anfiteatro romano di Ancona oggi è sospeso a metà del suo disvelamento, e forse proprio a questo deve il suo fascino, alle tracce che evocano la grandiosità che fu: novantatré metri per settantaquattro, con un’arena di cinquantadue metri per trentacinque.
Il fascino deriva anche dalle costruzioni circostanti: l’arrocco di edifici di diverse epoche, un mescolarsi di stili e di funzioni, persino una strada sopraelevata che lo lambisce, che genera un ambiente variegato e complesso, quasi una cornice che esalta il contenuto di pietre, gradinate, la cavea, le porte d’ingresso, e poi contrafforti, nicchie, archi, pavimenti a mosaico.
Dal camminamento costruito sul muro che rinforzava il vecchio carcere si ha la sensazione di un affaccio sospeso nel vuoto. E si può registrare un’altra particolarità di Ancona: venite a conoscere la città dove il sole nasce dal mare e nel mare tramonta.